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GOSFORD PARK
(GOSFORD PARK)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 8 aprile 2002
 
di Robert Altman, con Michael Gambon, Kristin Scott Thomas, Emily Watson, Kelly MacDonald, Camilla Rutheford, Maggie Smith, Alan Bates, Helen Mirren, Derek Jacobi (Stati Uniti, 2001)
 
Pochi cineasti, anche fra i più grandi, riescono in tarda età a non vivere di rendita; a non appoggiarsi banalmente sulla maestria acquisita. Come Huston o Wilder in passato, De Oliveira, Imamura o Rohmer nel presente, dopo alcune opere simpaticamente minori, Robert Altman riesce ad aggiungersi a quel coro di privilegiati di genio.

Perché GOSFORD PARK, imponente opera corale che solo il regista di NASHVILLE poteva immaginare - 137 minuti, una cinquantina di personaggi come in UN MATRIMONIO - non è "soltanto" un giallo alla Agatha Christie fra la parodiata aristocrazia inglese degli anni 30. Un tragicomico weekend di paura nello solito splendido maniero, nel quale si organizza una partita di caccia con qualcuno che liquida il padrone di casa odiato dalla stragrande maggioranza dei presenti. GOSFORD PARK non è un James Ivory; non una di quelle minuziose ed un po' nostalgiche ricostruzioni dei rituali decadenti dei cugini britannici nei quali alcuni americani, dal Kubrick di BARRY LYNDON al Losey de IL MESSAGGERO hanno fatto talvolta meraviglia. Al contrario: al di là di qualche limite in un finale un po' confuso e sbrigativo, GOSFORD PARK sorprende ad addirittura innova rispetto all'opera (e che opera) del regista.

I film di Altman possono infatti essere distinti fra due tendenze: quelle corali, volte verso l'esterno, che descrivono la società in modo critico, satirico, sostanzialmente bonario. Cosi NASHVILLE, THE PLAYER o SHORT CUTS (AMERICA OGGI): nei quali rifulgeva in modo particolare la formidabile maestria linguistica del regista, l'ormai leggendaria capacità di organizzare una pluralità di personaggi, avvenimenti, atmosfere grazie all'amalgama ottenuto da una qualità sovrana dello sguardo registico. Ed un secondo genere di opere: tese a viaggiare all'interno degli individui, ad indagarne i fantasmi, svelarne le intimità, le motivazioni, le tare o le qualità. Forse, il lato più prezioso e meno eclatante di Altman, quello di THE LONG GOODBYE, di IMAGES, di TRE DONNE.

L'affresco polifonico, terribilmente impegnativo di GOSFORD PARK, organizzato da un cineasta settantaseienne, riesce ad evolvere dalla prima alla seconda di quelle caratteristiche. E la forza del film è contenuta in quella equazione impossibile: che ci conduce oltre la meraviglia della ricostruzione storica, della recitazione da antologia (uno scempio presentare GOSFORD PARK nella sola versione doppiata!), il montaggio o la precisione della collocazione dei personaggi, al limite del maniacale, nello spazio e nell'azione.

Di GOSFORD PARK colpisce dapprima l'organizzazione corale, acuta, spassosa, basata sull'interpretazione della grande tradizione inglese. Come pure la volontà di sconvolgerne le tentazioni al compiacimento accademico: con la curiosa, imprevedibile mobilità della cinepresa, la destabilizzazione provocata dai piani-sequenza. Ma la forza espressiva del film (dovuta anche, sara' meglio non dimenticarlo alla magistrale sceneggiatura di uno di casa, Julian Fellowes) nasce soprattutto dalla sua organizzazione spaziale. Ai vasti e luminosi piani superiori, i padroni. I servi, nell'infilata di corridoi, nelle celle del sottosuolo. Non tanto per dirci che per l'aristocrazia ormai finanziariamente esangue di quel 1932 stavano per finire per sempre i tempi nei quali ci si poteva permettere dieci servitori per ogni padrone. Piuttosto, che le gerarchie, le caste, le manipolazioni di sopra si ritrovano puntualmente, simmetricamente, di sotto: dove maggiordomi o valletti perdono il proprio nome, per assumere quello dei rispettivi padroni. Dove i loro posti al tavolo della cucina vengono decisi in base al grado nobiliare di chi servono. Ma dove i rapporti di forza, i calcoli e le ipocrisie sono ancora più determinanti di quelli, ormai fiacchi e trasparenti degli aristocratici ai piani superiori. L'ottica del film si sposta in continuazione tra quei due spazi: non tanto per denunciarne la discriminazione di classe: per sottolinearne l'interdipendenza. E' dalla servitù che si raccolgono le voci di cosa sta per succedere; dalla loro mosse, dichiarazioni, presenze, umori che dipende l'azione del film. Ed il destino, solo apparentemente privilegiato di chi sta sopra.

Da un'identica situazione dell'uso del potere nascono allora le regole di un film che non a caso è stato subito definito come l'incontro fra DIECI PICCOLI INDIANI e LA REGLE DU JEU. Ma da queste similitudini finisce per risaltare la solitudine dei personaggi; e quella energia introspettiva solitamente assente dai film "grandi" di Altman. Personaggi più o meno innocentemente caricaturali fra gli aristocratici: i commenti al vetriolo della contessa Maggie Smith, la cinica ninfomania della padrona di casa Kristin Scott - Thomas, il sopraluogo disincantato del produttore hollywoodiano di successo. E ritratti psicologicamente più articolati, compiuti e commoventi fra i domestici. Come quella splendida Emily Watson, che con la determinazione della propria sensualità riuscirà a provocare l'inizio della fine; quella lucida, delicata novizia, Kelly MacDonald, che attraverserà il film di uno sguardo malinconico e rivelatore. O, ancora, il magnetismo della governante Helen Mirren, del maggiordomo Alan Bates: presenze apparentemente inscalfibili destinate a sciogliersi nelle proprie solitudini. Particelle vibranti d'itinerari all'interno di personaggi, che si pensavano semplici pedine di un raffinato ed un po' vano divertimento decorativo.


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